Premiare gli onesti

Il presidente del Consiglio ha ragione ad affermare che l’evasione fiscale in Italia è tale da giustificare l’uso di misure forti per contenerla, misure da “guerra”. Lo giustifica l’entità del fenomeno, misurata sia dal gettito mancato sia dalla sua diffusione in tutti gli strati della popolazione.

Ma oltre alla ragione proposta da Monti per combattere duramente l’evasione – i dubbi che essa oggi semina tra gli investitori sulla capacità dello Stato di onorare il suo debito – ve ne sono di altre meno contingenti di quella e per certi versi molto più fondamentali.

Vi è diseguaglianza della capacità (e anche la volontà) di evadere tra i cittadini ed un problema di distorsione dei meccanismi di funzionamento del mercato perché le possibilità di occultare profitti non sono uguali tra le imprese e sono spesso maggiori per le imprese peggiori conferendo loro un vantaggio competitivo, non fosse altro perché i costi di reputazione dall’essere indicati come evasori sono maggiori proprio per le imprese migliori. Ancor di più, il fatto di non poter contare su un sistema affidabile di accertamento del reddito – come accade per numerose categorie di contribuenti – rende problematico il funzionamento di una serie di mercati.

Il mercato del credito potrebbe funzionare meglio se le banche potessero contare su bilanci veritieri o su dichiarazioni dei redditi individuali che rivelino con maggior precisione la solidità economica della persona che chiede un prestito. Lo Stato potrebbe allocare meglio le proprie risorse se disponesse di dichiarazioni dei redditi affidabili (ad esempio si ricordino i presalari concessi a figli di avvocati notoriamente benestanti ma che potevano esibire un reddito dichiarato inferiore a quello del postino). Insomma, è difficile far funzionare bene uno stato moderno senza un affidabile sistema di accertamento del reddito dei contribuenti. Alcuni hanno detto che “l’uomo economico risponde al bastone della punizione ma anche alla carota del beneficio dell’evasione”.

E quest’ultimo è tanto più grande quanto maggiore è il peso della tassazione. E anche quanto più la quota di reddito pretesa dallo Stato si avvicina al (o anche eccede il) 50% del reddito prodotto. Se lo Stato si appropria di più di quanto riteniamo sia “equo”, siamo portati a giustificare la nostra evasione e anche quella degli altri, rendendo arduo combatterla. Ho scoperto l’acqua calda, diranno alcuni.
Questo governo ha rafforzato i poteri e fortemente legittimato gli interventi dell’Agenzia delle Entrate, muovendosi controcorrente rispetto a una storia decennale di tolleranza tacita verso l’evasione da parte dei poteri dello Stato.

Dai dati sul gettito Iva in aumento pur in una fase di contrazione dei consumi e di costanza delle aliquote, ad esempio, queste misure stanno producendo effetti importanti sul gettito. Stiamo assistendo all’effetto del bastone a cui risponde chi probabilmente in passato percepiva una bassa probabilità di essere “scovato” o scarse conseguenze se scoperto ad evadere. Ma perché la strategia di contrasto dell’evasione abbia successo duraturo occorre agire anche sull’altro margine – quello della carota – creando le premesse perché lo Stato riscuota mediamente dai cittadini una quota “giusta” del loro reddito.

Oggi, ancor più dopo i provvedimenti fiscali di emergenza adottati da questo governo alla fine dello scorso anno siamo significativamente al di sopra di quella quota. I vincoli finanziari che ancora limitano la discrezionalità nell’azione del governo forse pongono restrizioni al tempo di una politica di riduzione delle imposte. È questa la ragione per cui Monti pur riconoscendo l’eccessivo peso della pressione fiscale posticipa la sua riduzione a tempi migliori.

Tuttavia se lasciata vaga questa strategia è pericolosa. Primo perché i cittadini possono alla lunga smettere di fornire il loro consenso alla politica del bastone se non ne vedono i benefici in termini di riduzione del carico fiscale. Il governo dovrebbe impegnarsi già ora a restituire ai cittadini almeno parte del gettito recuperato all’evasione in modo da creare una politica di guerra all’evasione. Secondo, perché mantenere elevati livelli di tassazione allenta l’incentivo a ridurre la spesa pubblica. La logica che ha prevalso in Italia nei tre decenni passati è stata quella di fissare la spesa, spesso secondo le esigenze del ciclo politico, e trovare poi le risorse per finanziarla, inizialmente a debito ma poi inevitabilmente con maggiori tasse. La crescita dell’evasione è il portato dell’aumento della pressione fiscale causato dall’espansione della spesa assieme alla debolezza della classe politica che ha preferito chiudere un occhio per rendere tollerabile il peso del fisco.

Oggi occorre agire al contrario: ridurre le imposte attraverso altrettanti tagli di spesa. È solo da un riequilibrio di quest’ultima che potrà risultare un calo duraturo della pressione fiscale. Finché ci sarà troppa spesa pubblica da finanziare ci saranno tasse di eguale importo da esigere. E finché ci saranno aliquote troppo elevate ci saranno forti incentivi ad evadere. Ridurre le imposte e di pari passo la spesa è l’unico modo per far crescere la carota che potrà legittimare ancora di più l’uso del bastone.

Info su Alessandro Boggian

Presidente del Comitato Provinciale OPES Verona - Ente di Promozione Sportiva e Sociale riconosciuto dal CONI
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