Moneta unica e democratica

La crisi dell’euro ha rilanciato anche in Italia la tesi, che circola qua e là con sempre maggiore insistenza, secondo cui un’eventuale uscita dalla moneta unica, ancorché drammatica, sarebbe pur sempre meno dolorosa di una agonia prolungata e senza sbocchi. Meglio, pensano alcuni, fare da soli, tornare alla lira e alle svalutazioni competitive del passato, piuttosto che continuare a precipitare, senza reagire, nell’abisso in cui la crisi dell’euro sta trascinando l’Europa. Fermo restando che, di sicuro, l’infallibilità non ci appartiene, è però lecito ipotizzare che se l’euro crollasse, anche a voler prescindere dalle conseguenze economiche di un simile evento (per l’economia mondiale e quindi anche per noi), i contraccolpi politici sarebbero assai violenti per il nostro Paese. La ragione è che verrebbe meno quel famoso «vincolo esterno» in assenza del quale in Italia potrebbero correre forti rischi sia la democrazia politica che la stessa integrità dello Stato nazionale.

Possiamo discutere quanto vogliamo sul vizio d’origine della moneta unica, una moneta non sorretta da quella unificazione politica che tanti oggi invocano pur sapendo che essa non è comunque a portata di mano. Ma il fatto è che, quali che siano stati gli errori commessi, giunti a questo punto, la fine dell’euro avrebbe forti probabilità di risolversi, per contraccolpo, in una catastrofica dissoluzione di quasi tutto ciò che è stato costruito in sessanta anni di integrazione europea. E l’Italia si ritroverebbe nelle condizioni di una zattera alla deriva nel Mediterraneo.

Si può naturalmente pensare che ci sia molta esagerazione nella tesi secondo cui l’Italia necessitava prima e necessita oggi di stringenti vincoli esterni. Si può pensare che sia addirittura offensivo, o magari antipatriottico, dipingere un’Italia minorenne, incapace di gestirsi da sola, senza tutori e imposizioni esterne. Ma una più attenta osservazione della nostra storia postbellica nonché delle condizioni presenti del Paese, dovrebbe consigliare maggiore prudenza. Il patriottismo è un’ottima cosa ma a patto che non renda ciechi.

Per tutto il periodo della guerra fredda la democrazia italiana sopravvisse più a causa dei vincoli esterni (la Nato e, per essa, il rapporto con l’America, la Comunità europea in subordine) che a causa delle sue tradizioni e della sua cultura politica. Senza bisogno di spingersi a sostenere che, durante la guerra fredda, la democrazia sopravvisse in Italia nonostante quelle tradizioni e quella cultura politica, non può essere negato il potentissimo ruolo stabilizzatore che ebbero le costrizioni esterne.

Oggi, il rapporto con un’America sempre più lontana non funziona più come vincolo, non può più proteggerci da noi stessi. È rimasta solo l’Europa. Venisse meno anche quest’ultimo vincolo, che accadrebbe all’Italia? Si considerino due aspetti (che, sono, ovviamente, fra loro connessi): la condizione in cui versa la nostra democrazia politica e le vistose crepe che esibisce lo Stato nazionale.

Per quanto riguarda la democrazia, basta leggere le cronache quotidiane: classe politica delegittimata, disaffezione di porzioni ampie dell’opinione pubblica nei confronti del Parlamento e di altri fondamentali istituti democratici, rischi gravi di ingovernabilità una volta che si sia chiusa la parentesi del governo detto tecnico. Nonché la noia infinita di una discussione sulle «urgentissime» riforme costituzionali che si trascina sterilmente da trenta anni (dagli anni Ottanta dello scorso secolo) e minaccia di durare per altri trent’anni. Quanto questo eterno discutere senza sbocchi operativi, senza costrutto, abbia contribuito a usurare linguaggi e simboli della democrazia è difficile stabilire.

Altrettanto grave, e forse ancor più grave, è la condizione in cui versa lo Stato nazionale. Dopo centocinquanta anni di unità, il fallimento è evidente: la grande questione italiana, la questione meridionale, non ha mai trovato soluzione. La frattura Nord/Sud è più viva e forte che mai e, con essa, la distanza che separa certe regioni del Sud dal Nord d’Italia. Con la differenza che, un tempo, la speranza di venirne a capo mobilitava intelligenze, cervelli. Oggi non più. Non esiste più un pensiero meridionalista degno di questo nome. È subentrata la rassegnazione. Se verrà meno il vincolo europeo quanto tempo passerà prima che il conflitto territoriale esploda in forme incontrollabili?

Immediati costi economici a parte, la fine dell’euro, trascinando nella rovina anche l’Unione, ci lascerebbe soli alle prese con tutti i nostri fantasmi. Non ci conviene. Nel calcolo dei costi e dei vantaggi, la bilancia continua a pendere dalla parte dell’Unione. Non siamo certo gli unici, ma siamo comunque fra coloro che hanno un vitale interesse a che la crisi dell’euro venga superata.

tratto dal Corriere della Sera – di Angelo Panebianco

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Presidente del Comitato Provinciale OPES Verona - Ente di Promozione Sportiva e Sociale riconosciuto dal CONI
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