Progetto Paese, al centro l’impresa

Il nostro Paese ha di fronte a sé tanti problemi che si vanno sempre più aggrovigliando e aggravando. Per una soluzione che abbia un minimo di razionalità occorre un grande progetto, un Progetto-Paese, che delinei l’Italia dei prossimi decenni. In particolare l’Italia che vogliono i giovani, ai quali pertanto dev’essere lasciato grande spazio e dev’essere richiesto di partecipare attivamente alla costruzione del progetto. Per quanto si vogliano stringere i tempi, l’elaborazione del progetto è però opera non breve, soprattutto per coinvolgere il maggior numero di cittadini e averne un consapevole consenso. E intanto che cosa facciamo? Non possiamo certo fermarci in attesa della definizione del grande progetto. Questa è, a mio avviso, la discontinuità necessaria, come ieri sottolineato dall’editoriale del Sole 24 Ore.

Al punto in cui siamo credo che dobbiamo affrontare la questione centrale alla quale tutte le altre direttamente o indirettamente si ricollegano: l’occupazione. Dobbiamo aumentare i posti di lavoro. Non abbiamo altre strade. Sarebbe sbagliato cedere alla tentazione di politiche redistributrici: impoverirebbero tutti e finirebbero solo per accrescere quel latente “scontro sociale” che gli occhi più attenti intravedono già con grande chiarezza. Per creare lavoro c’è una sola strada: lo sviluppo delle attività produttive e, in particolare, delle imprese. Purtroppo negli ultimi anni non c’è stata un’efficace politica per l’impresa, non siamo andati oltre qualche enunciazione di principio e invece dobbiamo fare molto di più. Dobbiamo dire con chiarezza che l’impresa è l’unico mezzo – o almeno il principale – attraverso il quale si può sviluppare l’occupazione. Dobbiamo impostare una coerente politica: coerente nei fatti, non solo nelle enunciazioni. È indispensabile chiamare a raccolta le energie del Paese, lo dobbiamo fare con umiltà, senza arroganza, senza contrapposizione tra buoni e cattivi, nella consapevolezza che serve il contributo di tutti.

In concreto occorre dar corso rapidamente a una politica che preveda: e un diverso trattamento fiscale degli utili d’impresa; una chiara esplicitazione delle norme per l’attività d’impresa; la riattivazione del canale di finanziamento bancario delle imprese oggi parzialmente ostruito soprattutto per quelle di media e piccola dimensione.
Sul primo punto va accantonata – perché del tutto illusoria – l’idea di procedere a una riduzione generalizzata delle imposte. Occorre concentrare le poche risorse disponibili sulla fiscalità d’impresa, rimandando a un secondo momento ogni intervento sulla fiscalità di persone fisiche e famiglie. La fiscalità sulle imprese può essere ridotta al 10% (o al 15% se parallelamente si sopprimerà l’Irap) modificando opportunamente la base imponibile allo scopo di tassare il reddito prima dell’imputazione degli oneri finanziari e di stabilire regole più rigide in materia di «inerenza» dei costi. L’indeducibilità degli oneri finanziari trova ragione nel fatto che l’imposta deve colpire la capacità di reddito dell’impresa indipendentemente dalla sua struttura finanziaria, la quale, soprattutto nelle piccole e medie imprese, è modellata dall’imprenditore sulla base della sua personale (o familiare) convenienza. Per non penalizzare le aziende molto indebitate si può arrivare al nuovo sistema – per le imprese che lo richiedano – in alcuni anni (3 o 4). Quanto all’inerenza, occorrono regole più precise – anche con meccanismi automatici – per evitare che siano imputate all’impresa spese personali (o familiari) dell’imprenditore. In connessione va opportunamente rivista la fiscalità per i percettori di dividendi e interessi.

Insomma, il principio generale è questo: finché il reddito resta in azienda la fiscalità dev’essere estremamente contenuta (di qui l’ipotesi del 10% o del 15%); la tassazione “vera” avviene solo quando questo reddito diventa un'”entrata” per la persona (o la famiglia) e tale tassazione non può che essere informata al principio della progressività. Per le cosiddette imprese sociali l’aliquota potrebbe essere ulteriormente ridotta (fino allo zero). In attesa del riordinamento di tutto il settore non profit – a cui bisogna dare comunque più attenzione – si potrebbero intanto esentare i redditi di imprese che statutariamente escludono ogni forma di distribuzione di utili. Una fiscalità come quella qui delineata incoraggerebbe la societarizzazione dell’attività produttiva e il reinvestimento degli utili, con ovvi vantaggi sulla trasparenza della gestione e sullo sviluppo economico. È mia opinione che il prospettato riordinamento della fiscalità in capo alle imprese sia sostenibile dalla finanza pubblica. Ma se ci fossero problemi, sarebbe l’occasione propizia per porre con chiarezza, in sede comunitaria, la questione della crescita tanto più che l’eventuale calo di gettito sarebbe solo temporaneo.

Il secondo punto, relativo alla normativa, è forse ancor più importante. Va dato un quadro di certezze a chi vuole intraprendere un’attività d’impresa: non si possono aggiungere, al normale e insopprimibile rischio generico d’impresa, i rischi dell’indeterminatezza del quadro normativo. Visto il fallimento di tutti i tentativi fin qui fatti per semplificare e disboscare la selva normativa, non c’è altra strada che realizzare una sorta di Testo Unico sulle attività d’impresa, così che chi intraprende o conduce questa attività possa conoscere con precisione tutte le norme che la disciplinano, alle quali uniformarsi.

Si tratta di un lavoro di grandissimo impegno, anche per le tante discipline regionali, ma non vi è altra strada per portare un po’ d’ordine e chiarezza in una normativa indeterminata e spesso priva di coerenza: occorre passare in rassegna criticamente tutte le norme esistenti, vagliarne il fondamento e decidere del loro recepimento nel Testo Unico, dopo aver provveduto – se occorre – a riscriverle per renderne il dettato più intellegibile e di non equivoca interpretazione. Il Testo Unico non va inteso come un generico tentativo di delegificare l’attività d’impresa per sottrarla al controllo pubblico. Al contrario, l’idea di procedere alla redazione di tale Testo Unico muove dall’assunto che l’attività produttiva debba essere opportunamente disciplinata, ma in modo chiaro, coerente e, soprattutto, in modo da non porre l’operatore alla mercé di una burocrazia senza volto, non sempre in condizione di valutare l’interesse generale. Solo così si potrà pretendere dai cittadini un rigido rispetto delle regole, con la previsione di strumenti sanzionatori adeguati alla gravità delle violazioni e la garanzia di efficienti organismi giurisdizionali.

Infine, per quanto concerne il credito bancario, è innegabile che oggi molte imprese economicamente sane non riescano a ottenere il necessario sostegno finanziario. Probabilmente a causa di alcuni provvedimenti adottati in sede comunitaria, le banche hanno convenienza a effettuare impieghi alternativi al finanziamento delle imprese perché tali impieghi, considerato il loro minor rischio, risultano per esse più remunerativi. Occorre, pertanto, intervenire per modificare il quadro delle convenienze delle banche, orientandole verso il finanziamento delle imprese. A questo scopo si potrà immaginare, ad esempio, l’introduzione di vincoli di destinazione nell’utilizzo dei fondi attinti alla Bce; l’introduzione di un credito d’imposta, a favore delle banche, rapportato all’incremento dei finanziamenti accordati alle imprese e modulato in modo da incoraggiare il credito a medio e lungo termine.

Il nostro apparato produttivo sta crollando sotto il peso della pressione fiscale, della crescente burocratizzazione e dell’inadeguatezza del finanziamento. Non è tempo di piccole “manutenzioni”. Il sistema va ripensato e per farlo occorrono tecnici della finanza, del fisco ecc. ma anche “filosofi”. Sono convinto che i provvedimenti qui appena adombrati – soprattutto se uniti a una chiara riaffermazione del ruolo dell’impresa come strumento di creazione di lavoro – possono ridare slancio alla nostra economia, liberando le tante energie imprenditoriali presenti in Italia e risvegliando l’interesse degli operatori stranieri per il nostro Paese.

Tratto da “IlSole24Ore”

Info su Alessandro Boggian

Presidente del Comitato Provinciale OPES Verona - Ente di Promozione Sportiva e Sociale riconosciuto dal CONI
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