C’è qualcosa che non va. L’economia italiana perde colpi. Non solo durante la crisi e per la crisi: lo faceva anche prima, negli anni in cui altri paesi correvano più o meno spensierati, e, presumibilmente, lo farà quando tornerà la ripresa.
Qualcosa si è rotto. È accaduto un po’ ovunque, tra i paesi avanzati. In Italia, però, la situazione sembra più grave: i problemi comuni sono qui più gravi e, in più, c’è qualcosa di “tutto nostro”.
È infatti la struttura dell’economia italiana, più delle sue vicende cicliche, a preoccupare. Come se il paese avesse esaurito la sua spinta. L’Italia è sempre più specializzata a tecnologie basse e medio basse mentre le nostre eccellenze tecnologiche, anche se a volte particolarmente “brillanti”, pesano molto poco sulla produzione totale.
I settori che hanno in Italia un peso superiore alla media dei grandi d’Europa restano quelli tradizionali, molto aperti peraltro alla concorrenza internazionale, che utilizzano processi produttivi relativamente facili da imitare e replicare all’estero, che richiedono investimenti, sul marchio più che sulla ricerca di base e che si trovano a concorrere sul prezzo con produttori provenienti da paesi il cui costo del lavoro è più basso.
Pesa l’assenza di numerose grandi imprese elettroniche e chimiche, oppure la chiusura è stata almeno in parte determinata dall’incapacità del sistema italiano di fornire in quantità sufficiente quegli ingredienti indispensabili per la crescita di comparti ad alta tecnologia?
I punti di forza del nostro paese, di fronte alla globalizzazione, si sono trasformati improvvisamente in punti di debolezza. Spiazzando l’intero paese. Vediamo, ad esempio: la cultura d’impresa, la nostra stabilità dei vertici aziendali, che oggi perde terreno rispetto al gioco di squadra; le rapide gerarchie, che prevedono livelli aziendali più numerosi rispetto all’estero, dove domina invece la “collaborazione”; la contiguità tra finanza e famiglia, oggi incapace di reggere alla sfida delle aziende che attingono al mercato finanziario; e il ricorso, per il finanziamento, alle risorse ormai insufficienti del credito bancario e dell’autofinanziamento, laddove le imprese migliori si rivolgono ai mercati finanziari.
Un tempo l’azienda italiana, con le sue specificità, era sinonimo di flessibilità, mentre oggi è difficile immaginare in questi termini le sue caratteristiche. Perdite di occasione d’affari, di quote di mercato e ostacoli al reperimento di risorse finanziare sono i costi, ormai preponderanti, della tradizione italiana. Molti imprenditori, anche noti, sono così costretti a cedere le aziende a stranieri.
Sarebbe sbagliato però cercare la causa del declino solo nelle “abitudini” degli imprenditori (che pure restano, nel bene e nel male, protagonisti). Ogni innovazione è considerata, in Italia, come una minaccia alla comunità e al suo habitat; e come inadeguata agli obiettivi, alla luce di migliori,e spesso future, tecnologie.