Il presidente della Cei Bagnasco – davanti all’assemblea dei vescovi – difende l’operato del governo Monti, parla dell’antipolitica e della crisi economica attraversata dal Paese, scattando una una fotografia drammatica del Paese. “Lavoro, lavoro, lavoro”, è il suo appello. Poi affronta il tema dell’Europa e il dramma dei suicidi, chiede che siano pagati i debiti della pubblica amministrazione e si rivolge alle banche perché aiutino aziende e famiglie. Tutti temi quanto mai più che attuali.
Ecco alcuni passaggi siginificativi.
I partiti e l’antipolitica. Nel giorno del ballottaggio elettorale, e del tracollo del dato sull’affluenza, il presidente della Cei dice che il governo tecnico “ha evitato il peggio” e dedica una lunga analisi alla situazione delle forze politiche e al loro atteggiamento nei confronti del governo Monti. “Stupisce l’incertezza dei partiti – dice Bagnasco – che paiono a momenti volersi come ritrarre. Non ci sarebbe di peggio che lasciare incompiuta un’azione costata realmente molti sacrifici agli italiani”. Il numero uno dei vescovi vuole evitare le generalizzazioni, ma affronta il tema della corruzione nella cosa pubblica: “Riconoscendo le persone oneste e perbene che, indubbiamente, ci sono e operano con impegno nel quadrante politico, non si può tacere però di quanti, lasciandosi andare a pratiche corruttive, a ragione vengono oggi ritenuti alla stregua di traditori della politica”. Poi il passaggio sull’antipolitica: nessun riferimento al successo di partiti di protesta, come il Movimento 5 Stelle. Per Bagnasco, la disaffezione è nel non voto: “Le astensioni dalle urne, le schede bianche, le schede nulle sono un messaggio chiaro da prendere sul serio“. Infine, l’appello per il rinnovamento: “Vorremmo davvero che i partiti, strumenti indispensabili alla gestione della polis, profittassero di questa per produrre mutamenti strutturali, visibili e rapidi, nel loro costume politico e nella stessa offerta politica. Perché lo scoramento e la disaffezione non prevalgano, occorre che la politica si rigeneri nel segno della sobrietà e della capacità di visione. Nessuno si illuda che il Paese tolleri facilmente di ritornare alla condizione quo ante. Si deve piuttosto scommettere sull’intelligenza dei cittadini, ormai disincantati e stanchi”.
Non è più l’ora di ricambi di facciata o di mediocri tatticismi spacciati per visioni politiche.
La crisi economica. “Lavoro, lavoro, lavoro”, ripete con enfasi il numero uno dei vescovi. Che parla innanzittutto dei giovani: “Devono finalmente ricevere dei segnali concreti, che vadano oltre la precarietà, la discriminazione, l’arbitrarietà”. E sottolinea che “le garanzie non possono valere solo per determinate fasce”. Poi, l’aspetto più tragico della crisi economica: “Il dramma dei suicidi di persone che si sentono schiacciate dalle responsabilità aziendali o familiari, spesso da debiti per i quali non hanno colpa, è un fenomeno che interroga”. Ma Bagnasco lancia anche precise accuse. Innanzitutto, sui debiti della pubblica amministrazione nei confronti degli imprenditori: “Stato, Amministrazioni ed Enti pubblici paghino senza ulteriori indugi i debiti contratti con i cittadini e le aziende. È semplicemente paradossale dover chiudere un’azienda per la mancata corresponsione del dovuto da parte dell’ente pubblico, quando poi è l’ente pubblico che dovrà in altro modo farsi carico degli ulteriori segmenti sociali di disperazione“. E poi chiede maggiore sensibilità alle banche: “Sappiamo bene che gli istituti bancari giudicano a oggi già pericoloso il livello della loro esposizione creditizia: ma noi non possiamo non far appello al senso civico e al dovere della solidarietà nei confronti delle piccole aziende e delle famiglie”.
L’Europa. “Sull’Europa vorremmo dire una parola. Non c’è dubbio infatti che vi sia oggi una crisi dell’uomo europeo, ieri autorizzato ad immaginare un certo esito del processo comunitario e oggi costretto a fare i conti con un soggetto poco riconoscibile. Si sono moltiplicate le analisi sulla stagione dell’euro e sulle contingenze della sua nascita. Preme rilevare un certo senso di delusione che oggi circonda l’Europa, ma anche l’illusione, forse, di poter annegare o confondere le debolezze nazionali in una realtà più grande. Un calcolo miope che oggi si paga a caro prezzo. Manca una visione di ciò che desideriamo dall’Europa, e c’è piuttosto la sensazione che abbia diritto di circolazione solo ciò che è negazione del passato e si presenta con una cifra apparentemente neutrale, illusoriamente progressista, ma chiaramente laicista. Se poi si considera che l’incontrollabilità della situazione economica è il frutto di scelte frettolose anche per l’unico comparto allora considerato, quello economico, bisogna davvero che si chieda scusa agli europei e si domandi loro di ricominciare da capo, includendoli però, e senza sminuire il significato di qualche loro verdetto. L’Europa è un bene troppo grande perché resti un’incompiuta sospesa nell’aria, o un progetto abortito per il quale il problema di ciascun membro sia trovare il modo più indolore per uscirne. Proprio le inattese difficoltà di cui stiamo facendo esperienza, ci parlano della necessità dell’Europa e dei rischi che corriamo se si tornasse indietro. D’altra parte, non ci può essere un’Europa senza passione, senza l’interiorità che sgorga dal patrimonio storico, culturale e religioso che i popoli europei hanno in comune. Un’Europa che non diventi anche avventura culturale e spirituale non riuscirà a plasmare il sentimento di appartenenza, e non sarà mai una comunità di destino. Ci vuole il coraggio di un’autocritica condotta a partire dal momento in cui si abbandonò il termine comunità per quello più banale di unione, e si censurarono le radici cristiane obiettivamente storiche del Continente, ritenendola una reticenza di stile del tutto ininfluente. È quel vuoto invece che oggi non mobilita, perché non si ha nulla per cui riconoscersi. Ha ragione chi osserva che non ci può essere comunità europea senza solidarietà e senza cooperazione, poiché la sola competizione non basta, esaspera le tensioni e logora i vincoli comunitari, lasciando i cittadini esausti e scettici. Anche la moneta unica potrebbe paradossalmente diventare un volano di vera integrazione, se la si ricomprendesse come un bene comune che non misura solo la potenza degli Stati aderenti, ma alimenta le condizioni di vita degli europei. I quali desiderano essere cittadini non solo il giorno delle elezioni, per poi tornare a fare i sudditi di una burocrazia tecnocratica, che cerca di forgiare una missione europea impopolare e scoraggiante. Per questa strada si rischia di tornare ad essere europei solo geograficamente”.
La società attuale e l’importanza della famiglia. “Di pari passo al lavoro sulla dimensione etica, urgono le iniziative che portino crescita e assorbano disagio sociale. C’è bisogno di lavoro, lavoro, lavoro. Ce lo dice con parole scolpite il Santo Padre: «La dignità della persona e le esigenze della giustizia richiedono che, soprattutto oggi, […] si continui a perseguire quale priorità l’obiettivo dell’accesso al lavoro o il suo mantenimento, per tutti» (Caritas in veritate, n. 32). Non smetteremo di chiederlo, tanto il lavoro è connesso con la dignità delle persone e la serenità delle famiglie. «Tutta l’economia e tutta la finanza, non solo alcuni loro segmenti, devono, in quanto strumenti, essere utilizzati in modo etico». I giovani in particolare devono finalmente ricevere dei segnali concreti, che vadano oltre la precarietà, la discriminazione, l’arbitrarietà. Le misure necessarie per le nuove generazioni e i diritti che esse vedono oggi riconosciuti, devono effettivamente compensarsi anche attraverso una scrupolosa revisione delle garanzie, che non possono valere solo per determinate fasce.
Con i diritti ci sono i doveri: in primis quello di meritarsi il lavoro e la sua stabilità. Ci sono tentazioni parassitarie che non fanno onore a chi vi ricorre – né a chi dovesse assecondarle − mescolandosi accortamente con gli altri e facendo conto strumentalmente su garanzie assicurate sulla base di giuste premesse. E c’è un costume insano che sta prendendo piede, persino in certe campagne pubblicitarie, secondo il quale si è spinti a spendere per i propri consumi ciò che ancora non si è guadagnato. Indebitarsi per fare una vacanza, o per avere in casa un oggetto superfluo, è segno di un modo di concepire la vita distorto, triste e pericoloso.
Il dramma dei suicidi di persone che si sentono schiacciate dalle responsabilità aziendali o familiari, spesso da debiti per i quali non hanno colpa, è un fenomeno che interroga e inquieta. Difficile sottrarsi anche alla percezione che vi possa essere un involontario, perverso effetto emulativo. Nel rispetto assoluto di ogni situazione, noi abbiamo il dovere di ricordare che nulla vale il sacrificio della vita: essa è sacra, nessuno ne può disporre a piacere e neppure a dispiacere. Vanno appurate con diligenza le cause concrete di questi fenomeni, e vanno approntati “sportelli amici” a cui possa rivolgersi con fiducia chi è disperato. Com’è noto, su questo fronte la Chiesa italiana e le varie Diocesi da tempo sono mobilitate in modo operativo e concreto per creare – più fitta e resistente – una rete di protezione della vita di tutti e di ciascuno. Proprio la perentorietà con cui spesso si presentano le situazioni di crisi, richiede a tutti gli enti e sportelli preposti di adottare criteri di ragionevole flessibilità. Sappiamo bene che gli istituti bancari giudicano ad oggi già pericoloso il livello della loro esposizione creditizia: ma noi non possiamo non far appello al senso civico e al dovere della solidarietà nei confronti delle piccole aziende e delle famiglie. Con grande rispetto, invitiamo la classe imprenditoriale a ripensare alla facile strategia delle delocalizzazioni: la genialità che ci è riconosciuta deve trovare esplicazione nel ciclo complessivo della produzione, bilanciando lavoro e redditività, ma anche salvaguardando, pur in una logica non isolazionistica, l’italianità delle industrie e delle relative dirigenze. Inoltre, l’approccio prevalentemente finanziario ad alcuni problemi del mondo industriale forse ripiana dei vuoti, ma rischia di spogliare il Paese del proprio patrimonio. E se i settori complementari vengono allontanati gli uni dagli altri, ci chiediamo: sarà più facile l’integrazione e il reciproco sostegno tra loro, oppure sarà fatale l’indebolimento di tutti? Si dice che è da difendere la forza lavoro – ed è giusto –, ma se la tecnologia e le professionalità prendessero le ali, non diventeremo un luogo di assemblaggio?
E allora quanto sarebbe sicuro il lavoro residuo?
Siamo partiti domandandoci come si presenterà prevedibilmente la crescita a cui fortemente aspiriamo. E si diceva che essa non si svilupperà tanto sulla quantità (di beni, di risorse, di consumi…), quanto sulla sicurezza, la qualità delle relazioni, l’istruzione dei nostri giovani e la riqualificazione degli adulti, la tutela dell’ambiente, la valorizzazione sistematica dei beni artistici, l’organizzazione del tempo, compreso il rispetto della domenica. Questo discorso ci porta ancora una volta al crocevia in cui oggi si trova la famiglia, e non per una sorta di fissazione monotematica, ma piuttosto per la consapevolezza del valore che è questa ineguagliabile e spesso maltrattata struttura antropologica, l’unica che ci consenta di proiettarci nel futuro. Non a caso è un “universale presente in ogni società” in quanto permette di tenere insieme le differenze dell’umano, quelle relative ai sessi e quelle relative all’età. È il grembo insostituibile in cui spunta la vita, l’identità e la maturità delle persone, il loro equilibrio esistenziale, la loro progressiva apertura alla vita sociale. Ovvio che, lasciata sola, magari anche denigrata, la famiglia resiste ma patisce, nonostante alcuni promettenti segnali di sostegno che fanno ben sperare se ulteriormente incrementati ed estesi. Esser distratti rispetto al bene insuperabile della famiglia fa soffrire anche la società, che indebolisce il suo più rilevante cespite di vitalità, di coesione e di futuro. Per questo, in una cultura del tutto-provvisorio, l’introduzione di istituti che per natura loro consacrino la precarietà affettiva, e a loro volta contribuiscono a diffonderla, non sono un ausilio né alla stabilità dell’amore, né alla società stessa. La famiglia non è un aggregato di individui, o un soggetto da ridefinire a seconda delle pressioni di costume oggi particolarmente aggressive e strategicamente concentrate; non può essere dichiarata cosa di altri tempi.
In Italia, la famiglia tiene e si rivela il punto di tenuta affettiva, psicologica ed economica. Ma bisogna recuperare una cultura della famiglia; una cultura che fa del nostro Paese un esempio a cui guardare. C’è fame di famiglia perché essa è il motore della vita. Affermare e sostenere la missione incomparabile della famiglia naturale come cuore pulsante e patrimonio dell’umanità. Il discorso sembra persino ovvio se si prendono in considerazione i figli, che sono normalmente i sostenitori più convinti dell’unità e dell’integrità della loro famiglia”.