Ricostruire

Nel giorno in cui il giuramento del governo Letta provava a fornire al Paese la speranza che qualcosa potesse finalmente iniziare a cambiare, un gesto scellerato e tremendo ci ha ricordato quanto profondo e vasto sia l’oceano di disperazione in cui il premier dovrà dimostrare di saper tracciare la rotta del suo esecutivo. Ancora di più, questa tragica concomitanza ci costringe a riflettere sulla drammaticità della stagione che stiamo vivendo, a interpellarci su che cosa siamo disposti a fare perché la speranza, alla fine, prevalga sulla disperazione. In questo senso, l’insediamento del nuovo governo e la sparatoria trovano un comune denominatore rispetto a noi.

Ci chiedono infatti se vogliamo restare solo astanti sgomenti o se viceversa non crediamo che solo assumendo fino in fondo le nostre responsabilità potremo evitare gli esiti più cupi e concorrere a una ricostruzione per molti versi analoga a quella del secondo dopoguerra.

Non nascondiamocelo. Abbiamo tutti tirato un sospiro di sollievo ieri mattina, quando abbiamo avuto la certezza che la sparatoria davanti a Palazzo Chigi fosse il folle gesto di un attentatore solitario. La contemporaneità rispetto al giuramento del governo Letta lasciava infatti aperto lo scenario più inquietante, quello di un ritorno degli anni di piombo. Non è stato così, per fortuna, ma guai a liquidare quello che è successo ieri come «il gesto di un folle» o a trarre ammaestramenti fuorvianti o di comodo.

Voleva «colpire i politici» Luigi Preiti, ma ad andarci di mezzo sono stati due carabinieri, uno dei quali resterà probabilmente tetraplegico: uno scenario, questo, visto fin troppe volte negli anni ’70 e ’80. Nel mezzo di una vita che aveva preso una piega storta, con un matrimonio andato a rotoli e senza lavoro, gli sarà stato probabilmente ancor più insopportabile lo spettacolo offerto da una classe politica che per oltre sessanta giorni dalla data delle elezioni è sembrata completamente sorda e assente di fronte a un Paese in cui la disoccupazione viaggia verso il 12%, quella giovanile è oltre il 40%, le imprese chiudono a centinaia ogni giorno e lo Stato sociale offre una protezione sempre meno efficace proprio quando essa risulterebbe maggiormente necessaria. Nel frattempo le famiglie non arrivano a fine mese e vedono il loro potere d’acquisto crollare, i soldi per la cassa integrazione stanno per finire, le banche non fanno credito e la pressione fiscale è a livello sovietico. In una simile situazione, i più fragili si sparano. O iniziano a sparare.

Mentre ieri da tutto il mondo politico si levava un coro unanime di condanna della violenza (e ci mancherebbe altro), già iniziavano i distinguo sulla responsabilità dell’antipolitica. Dimenticando che la prima forma di antipolitica è stata quella che ha alimentato per un ventennio la delegittimazione reciproca delle principali coalizioni, alimentando un clima di “democrazia assediata” che ognuno sperava di giocare a suo vantaggio, e che invece è servita solo a privare di legittimità complessiva il sistema. La prolungata crisi economica ancora in corso non ha fatto altro che mettere in luce ancora più crudamente quanto poco fossero sopportabili lo spettacolo di partiti chiusi nei loro giochi autistici e la situazione di un Paese senza guida politica, ma purtroppo non per questo liberato dai costi esorbitanti che la classe politica impone per il suo mantenimento. La violenza verbale della reazione contro la classe politica di cui Grillo è (stato?) un catalizzatore e un interprete nasce nel brodo di coltura della violenza del discorso politico della seconda repubblica, nel livore narcisistico delle parole degli uni e degli altri, e si alimenta della frustrazione di una società che si sente abbandonata e insieme tartassata.

Al nuovo governo, la tragedia di ieri impone l’urgenza di un compito cruciale per il nostro futuro: quello di riportare il discorso e lo scontro politico al livello fisiologico di una democrazia. Guai però a illudersi che un tale obiettivo possa essere raggiunto solo con la pacatezza dei modi e abbassando i toni. Perché fuori del palazzo, c’è un Paese che è a un passo dal trasformare la sua frustrazione in rabbia: e per evitare che ciò avvenga è necessario che siano gli atti a parlare, che le azioni prendano il posto delle parole. La differenza che passa tra “le larghe intese” e “l’inciucio”, a ben guardare, sta tutta qui: nel dimostrare con i fatti che il “governo di servizio” è al servizio del Paese e non della sopravvivenza della sua classe politica, come (legittimamente) sostengono i suoi oppositori. Non dovremmo mai dimenticare, oltretutto, che in un clima politico assai meno rovente, di fronte a una situazione economica non disperata come quella odierna e quando ancora il welfare State era degno di questo nome, una classe politica infinitamente migliore e più preparata dell’attuale venne presa a pistolettate da bande armate che, in una prima fase, godettero anche di una qualche tolleranza o comprensione in certi ambienti culturali, politici e sociali. In assenza di segnali forti di ricongiungimento della politica con il Paese, il rischio che gesti come quelli di ieri possano perdere in “follia” e acquisire “organizzazione” è tutt’altro che basso.

Dare leadership, speranza e coraggio a un Paese significa anche avere il coraggio di sollevare in Europa la questione dell’insostenibilità di un rigore che rischia di essere fine a se stesso, di imporre sacrifici inaccettabili proprio ai ceti e alle persone più fragili, con misure che sono ben poco giustificabili sia in termini etici sia in termini politici, quando tutelano la stabilità complessiva di un assetto socio-economico senza porsi il problema di una concentrazione della ricchezza sempre più stridente con i principi della “buona società” e della stessa economia di mercato. Spronare il nuovo governo a colmare il solco che la politica ha scavato rispetto al Paese, incitarlo ad assumere con risolutezza e determinazione quei provvedimenti necessari ad eliminare privilegi inaccettabili e sprechi inammissibili, gettare i presupposti per la ricostruzione economica: questo è il contributo che bisogna offrire per scongiurare che dalla frustrazione nasca la rabbia e la disperazione.

Info su Alessandro Boggian

Presidente del Comitato Provinciale OPES Verona - Ente di Promozione Sportiva e Sociale riconosciuto dal CONI
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