L’Italia non è un Paese “Spazzatura”

Il declassamento di Moody’s e’ grave, ma e’ chiaro che l’arbitro non e’ imparziale. Occorre un’authority a livello europeo in grado di giudicare il grado di solvibilita’ del debito degli Stati membri in totale indipendenza. Non dimentichiamo che le agenzie di rating hanno un padrone

Giuste le osservazioni del segretario dell’Udc, Lorenzo Cesa, secondo cui «Dobbiamo fare in modo che l’Europa si doti di un’agenzia di rating seria. Non possiamo affidare il giudizio sull’economia italiana ad agenzie che fanno gli interessi degli speculatori internazionali».

Ma perché il downgrade di Moody’s ha lasciato quasi indifferenti investitori e analisti internazionali? Perché l’asta BTp di ieri ha visto scendere i rendimenti malgrado il doppio taglio di voto operato sul nostro debito? E perché, infine, anche i credit default swap sull’Italia, cioè le polizze anti-insolvenza sul nostro debito sovrano, sono scesi di prezzo invece di salire? E infine: perché Moody’s ha annunciato il declassamento dell’Italia con i mercati asiatici aperti (lasciando per fortuna anche loro indifferenti) e quindi poche ore prima dell’apertura dei mercati europei e soprattutto poco prima di un’importante asta di titoli di Stato italiani? Non sarebbe stato forse più onesto e corretto da parte di Moody’s aspettare la chiusura dei mercati europei per il week-end, come si fa di solito in questi casi?

Sono queste alcune delle tante domande-chiave su quanto accaduto recentemente, e malgrado l’abbondanza delle risposte ce n’è una che colpisce più delle altre, forse perché scritta non da un analista di una banca italiana, ma di una delle più grandi banche francesi: «Per uscire dalla crisi – scrive l’analista nel suo report – c’è bisogno di bussole affidabili che diano conto in maniera adeguata dei maggiori o minori progressi che ciascuno compie nel cammino europeo verso la sostenibilità». Lo spread e i rating, dunque, sono una bussola imperfetta, che per ammissione del mercato stesso va saputa leggere guardandoci dentro e andando oltre. «Il divario persistente tra BTp e Bund – è scritto ancora nel report della banca francese – non dà conto di molti progressi compiuti da Paesi come l’Italia».

«Visto dall’altra parte, lo spread certifica l’esistenza di un non piccolo sussidio europeo al rientro dell’eccesso di debito pubblico che pure esiste in Germania. Sta al mercato, alla politica e al dibattito mediatico superare gli allarmismi per comprendere e spiegare la complessità». Ecco, più del rialzo delle Borse, ciò che colpisce delle reazioni dei mercati finanziari al downgrade dell’Italia è proprio il cambio di prospettiva finalmente in atto nei confronti delle agenzie di rating e della dittatura degli spread.

Le tre domande iniziali, dunque, hanno trovato una prima risposta: i mercati, in una crisi complessa come quella in corso, hanno cominciato a trattare i rating per quello che sono, cioè la fotografia di un arcobaleno in bianco e nero. Dopo quattro anni di crisi economica e finanziaria, di rischi di disgregazione dell’euro e dell’Europa, di governi che si avvicendano con una velocità mai vista prima d’ora e soprattutto dopo lo sforzo imponente messo in atto dalla leadership europea per evitare che la crisi greca si trasformi nell’apocalisse dell’Europa, non solo il mondo è cambiato, ma è cambiata soprattutto la sudditanza del mercato nei confronti dei vecchi indicatori.

Certo, agenzie di rating e spread hanno sempre un valore per i mercati, ma finalmente questo appare inserito all’interno di un contesto più realistico e meno profetico: come dimostra l’asta BTp di venerdì e prima di questa l’asta BoT di alcuni giorni fa, tanto lo spread quanto il rating non sembrano più in grado di esaurire in sé la portata delle analisi sullo stato di salute e sulle prospettive intorno all’economia italiana. Non è, infatti, solo il rating o il solo spread BTp-Bund a determinare la sostenibilità del debito pubblico, ovvero la possibilità di avviare in un prossimo futuro quelle riduzioni del rapporto tra debito pubblico e Pil che ci chiedevano già le regole di Maastricht e che oggi, con ben maggiore cogenza, impongono le nuove metriche dell’Euro plus e del Fiscal Compact.

Il fondamento economico-finanziario di questa attenzione è solido. Misurare lo spread è un modo per ricordarci il vincolo impostoci dall’essere titolari di un debito pubblico che è tra i più elevati del mondo. Un debito i cui interessi ammonteranno quest’anno a circa 85 miliardi di euro, pari oltre cinque punti percentuali del prodotto interno lordo. Ma questa è la foto in bianco e nero del nostro arcobaleno. I colori che mancano, e che Moody’s sembra volutamente non vedere, sono tanti e soprattutto sarebbero sufficienti da soli a far crescere la fiducia su ciò che sta facendo l’Italia, non a farla diminuire come sembrano desiderare le agenzie di rating.

Perché l’Italia è lo strano Paese dove gli imprenditori si prestano i capannoni tra loro quando il nemico da battere è il disastro causato dal terremoto. E sotto le macerie si scopre uno strano Paese che produce macchine salvavita per metà degli ospedali d’Europa grazie a un distretto, silenzioso quanto operoso, che è il quinto polo del mondo nel biomedicale.

L’Italia è lo strano Paese che si dipinge con i tratti dell’autosberleffo ma è ai primi tre posti al mondo, come esportatore, in almeno un migliaio dei 5.500 prodotti totali con cui si classifica il commercio mondiale.

Se è vero che l’aerospaziale italiano è il settimo nel mondo e quarto in Europa (anche nelle recessione). Sono italiane le imprese che allargano il Canale di Panama, costruiscono dighe colossali, sviluppano la fotonica, producono radar venduti in ogni angolo del globo.

Invece i radar di Moody’s si accontentano della superficie: l’economia reale dell’Italia reale è quella della seconda manifattura d’Europa. Ma questo sembra non interessare a chi dà pagelle e definisce rating.

Poco importa se l’Italia è la culla delle eccellenze diffuse dalla robotica alle nanotecnologie, dal tessile ai nuovi materiali. Se le sue valvole a controllo elettronico, alte come tre uomini, sono disseminate nelle pipeline più strategiche; se i suoi gioielli sono i più ricercati, se i suoi occhiali hanno conquistato ogni mercato, continente dopo continente.

Moody’s non ha visto questo tesoro e continua a scommettere su un peggioramento delle condizioni strutturali di un Paese in lotta contro i titani della speculazione di cui la stessa agenzia di rating è mosca cocchiera.

L’economia reale di un popolo di “faticatori” va nel mondo a testa alta, dall’arredamento alla meccanica, dalla ceramica alla chimica, dall’agroindustria alla moda: le imprese che hanno saputo guardare oltre i confini sono tornate ai livelli di esportazione precedenti al periodo della crisi Lehman. Non che manchi chi debba ancora fare il salto qualitativo dell’innovazione di processo e prodotto o che debba cambiare missione produttiva. Non che l’Italia non sia sempre più un Paese schiantato dall’eccessiva pressione fiscale, da un peso della burocrazia insostenibile e da un’asfissia nella concorrenza che non aiuta a creare occasioni di lavoro. Ma anche questo sarebbe quasi fisiologico – soprattutto perchè comune ad altri Paesi europei – nella normale evoluzione del capitalismo industriale se l’Italia non fosse diventata un Paese nevrotizzato dai parametri macroeconomici e preda delle pagelle di valutatori non sempre disinteressati.

Purtroppo un deficit storico di autostima rende queste incursioni più devastanti. La levata di scudi che per una volta ha accomunato tutta la politica e tutto il mondo produttivo ha dato un primo segnale importante di orgoglio. Del resto basta ragionare sul fatto che l’Italia sta realizzando, in un anno, le riforme che la Germania ha portato a termine in 12. Che l’Italia è il solo Paese in Europa con un avanzo primario al 3,4 per cento. Che l’Italia ha una ricchezza privata ben superiore al debito pubblico, in un rapporto non molto dissimile a quello della Germania. Che ha un patrimonio d’arte e cultura inestimabile e ancora adesso minimamente valorizzato. Forse c’è chi ha interesse a che gli italiani non si fermino troppo a ragionare su se stessi. Scoprirebbero quanto di buono e di bene, nonostante tutto, vi sia nell’essere cittadini della Repubblica Italiana.

Info su Alessandro Boggian

Presidente del Comitato Provinciale OPES Verona - Ente di Promozione Sportiva e Sociale riconosciuto dal CONI
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