La formica e la cicala (!?)

Era il luglio di cinque anni fa quando si avvertirono i primi scricchiolii in alcune banche americane, francesi e tedesche. Da allora abbiamo vissuto la più forte recessione dagli anni Trenta, la crescita è rallentata, e trovare un lavoro è diventato difficile dovunque. Questa crisi ci ha insegnato alcune verità.

Le crisi finanziarie, soprattutto quelle scatenate da aumenti ingiustificati nei prezzi delle abitazioni producono, quando la bolla poi scoppia, recessioni molto lunghe. Le banche, dopo aver concesso mutui con grande leggerezza, senza chiedersi se il cliente debitore sarebbe stato in grado di sostenere le rate, subiscono perdite ingenti e devono ricapitalizzarsi. Ma a quel punto trovare capitali privati non è facile, e se interviene lo Stato, il debito pubblico esplode, come è accaduto in Stati Uniti, Irlanda e Spagna. Così il credito non riprende e l’economia ristagna a lungo.

Occorre abbandonare l’illusione che per riprendere a crescere basti un po’ di spesa pubblica. Per vent’anni il Giappone le ha provate tutte: porti, metropolitane, alta velocità: il debito pubblico si è triplicato, ma la crescita non è mai arrivata. E anche il programma fiscale di Obama, se forse ha attenuato la recessione americana, certo non è riuscito a ridurre la disoccupazione e a far ripartire velocemente l’economia. E nel frattempo anche gli Stati Uniti hanno accumulato livelli di debito molto onerosi.

Per risanare il sistema finanziario bisogna separare le banche dalla politica. In entrambe le direzioni: riducendo il potere dei politici sul sistema finanziario e l’influenza dei banchieri sui governi. Prendiamo per esempio la vicenda delle Caixas spagnole: se il governo di Madrid non le avesse protette fino all’ultimo, negando che fossero tutte fallite, forse oggi la Spagna sarebbe in una situazione meno drammatica. Le banche pubbliche tedesche si oppongono con forza al trasferimento dei poteri di vigilanza alla Banca centrale europea: temono occhi indipendenti con cui sarebbe difficile venire a patti. Se l’avessero vinta, l’unione bancaria non vedrebbe la luce e l’euro avrebbe i giorni contati. Ma l’indipendenza deve essere anche nel senso contrario.

La crisi ha dimostrato la fragilità del progetto europeo. Finché tutto andava bene le fondamenta tenevano. Da quando è scoppiata la crisi, la costruzione traballa pericolosamente. Ma invece di trovare una soluzione, i politici europei non fanno che accusarsi tra loro ritardando gli interventi necessari. È ormai chiaro che l’euro non si salverà con scorciatoie e tappabuchi come gli eurobonds o i fondi salva-Stato. Affidare il salvataggio dell’euro alla speranza che le «formiche del Nord» salvino «le cicale del Sud» socializzando i loro debiti è ingiusto, politicamente impossibile, ma soprattutto non servirebbe a nulla. Un salvataggio senza una maggiore integrazione politico- economica dell’eurozona avrebbe solo l’effetto di dare alle cicale la possibilità di rimandare riforme già troppo a lungo procrastinate. Dopo di che le tensioni tra Sud e Nord riesploderebbero con più forza. L’euro si salva con un piano di medio termine di integrazione bancaria, fiscale e politica dell’eurozona. Ciò non significa gli Stati Uniti d’Europa, ma un’architettura che permetta all’unione monetaria di funzionare. Una prima decisione, dopo aver affidato la vigilanza bancaria alla Bce, potrebbe essere un primo passo nel trasferimento della sovranità sui propri conti pubblici. Ad esempio si potrebbe decidere che se un Paese non rispetta gli obiettivi sui conti pubblici, la nuova legge finanziaria che si renderà necessaria (incluse le riforme indispensabili per renderla credibile) non sarà scritta dal governo di quel Paese, ma dalla Commissione di Bruxelles, e non sarà votata dal suo Parlamento, ma dal Parlamento europeo. Per esempio concedere una licenza bancaria allo European stability mechanism (Esm), cioè consentire che la nuova istituzione europea abbia accesso alla liquidità della Bce, condizione necessaria affinché la quantità di eventuali acquisti di titoli pubblici sia sufficiente a renderli credibili. Oppure creare, sempre attraverso l’Esm, una garanzia europea sui depositi bancari cioè l’impegno, qualunque cosa accada, a rimborsarli in euro.

I compiti a casa dobbiamo continuare a farli, non solo quando lo spread sale. Non basta ridurre gli sprechi. Occorre ridurre le tasse che gravano su chi lavora e produce. È molto difficile crescere con un debito pubblico che supera il 100% del Pil e un peso fiscale che per i contribuenti onesti è tra i più alti al mondo. Serve una rivoluzione del nostro Stato sociale, non solo ritocchi.

La giustizia sociale va garantita creando il più possibile pari opportunità per tutti. Premiare il merito, punire le rendite di posizione, scardinare i privilegi, rendere il mercato più equo, colpire l’evasione.

Il tempo sta per scadere. Le crisi spesso durano molto più a lungo di quanto si pensi. Ma poi svoltano e si avvitano in un baleno. Ci vogliono dei mesi, ma poi basta una notte.

Info su Alessandro Boggian

Presidente del Comitato Provinciale OPES Verona - Ente di Promozione Sportiva e Sociale riconosciuto dal CONI
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