Il dilemma generazionale

A chi ridistribuire i fondi recuperabili con un’efficace azione di spending review? Ai giovani che vedono al 36% il tasso di disoccupazione giovanile; o ai quasi 300mila “esodati” dei prossimi anni ancora impigliati nel cambio di regole previdenziali tra vecchio regime e riforma Fornero?
L’aut aut “generazionale” tra un’eventuale azione di alleggerimento fiscale per creare nuova occupazione e una misura di sostegno al reddito per chi l’occupazione l’abbia già lasciata, aiuta a capire come si deve muovere l’azione della politica economica.
Un gran brutto dilemma, nel giorno in cui l’Istat annunciava il record storico della disoccupazione di chi ha tra i 15 e i 24 anni.

In questi giorni dolce-amari per lo sport e di continue traslazioni tra calcio e geopolitica è utile citare il Ct della Nazionale Cesare Prandelli: «Siamo un Paese vecchio, con tante cose da cambiare». Il secondo Paese più vecchio del mondo, dicono le statistiche demografiche: siamo secondi solo al Giappone. E non è improbabile che la composizione generazionale della popolazione italiana abbia, alla lunga, influenzato anche le scelte della politica, sempre attenta alla lobby delle “pantere grigie”, assai meno a quella dei ragazzi: il corpo elettorale italiano, unico tra i Paesi occidentali, vede un peso più che doppio degli elettori ultra sessantenni rispetto a quelli tra i 18 e i 35 anni.

La legge Fornero sul lavoro ha come obiettivo dichiarato proprio quello di dare più attenzione ai giovani: ma non sarà una legge sulle regole del gioco a creare davvero il gioco. I posti di lavoro si creano con la vitalità dell’economia e con l’attenzione profonda alle idee imprenditoriali.
Precondizione, però, è quella di non sprecare la risorse più preziosa per un Paese: il capitale umano. In Italia 2,3 milioni di giovani non cercano lavoro e non studiano (e non sono nel calcolo della disoccupazione); 5 milioni di persone sono sottoccupate, vale a dire svolgono mansioni inferiori a quelle previste dal loro titolo di studio. E quando studiano i giovani italiani lo fanno meno degli altri coetanei dei Paesi occidentali (i laureati italiani sono al 12%, nell’Ocse circa il 25%). L’Italia non ha saputo valutare e valorizzare i suoi talenti se, tra l’altro, per quasi 20 anni il salario d’ingresso dei giovani è rimasto invariato (dunque decrescente in termini reali).

Nonostante l’obiettivo strategico sia stato quello di valorizzare i giovani, non è automatico che le nuove regole sulla flessibilità (più onerosa e più controllata) della riforma del lavoro possano creare di per sé nuova occupazione. Anche perché c’è poco o nulla, nella riforma, sul tema dei servizi all’impiego o sul tema dell’orientamento degli adolescenti alla futura vita lavorativa, tema del tutto sconosciuto oggi agli studenti delle classi medie superiori.
Ciò che serve, tuttavia, è un cambio di prospettiva di lungo termine dove la fiducia e la scommessa sul futuro siano vera regola culturale degli attori della politica e dell’economia. Serve, ad esempio, attenzione convinta alle tecnologie e all’innovazione. Oggi l’85% delle assunzioni avviene con contratto a tempo determinato e riguarda assunzioni stagionali con profili a basso contenuto professionale: significa che l’Italia non ha ancora cambiato il proprio paradigma di sviluppo o lo ha fatto solo marginalmente. E quando lo ha fatto sembra essere stata guidata da una mano invisibile irrazionale se è vero che in 10 anni scompariranno 385mila posti di lavoro artigianali (dati Cgia di Mestre) tra cui, solo per citarne alcuni, pellettieri, sarti, tipografi, stampatori, figure in realtà molto legate al made in Italy di qualità.
Per liberare finalmente le energie vitali in grado di creare sviluppo duraturo è necessario recuperare risorse da destinare alla progettualità e alla velocità di azione degli attori economici, a cominciare dalla infrastrutture digitali ed eco-compatibili fino al recupero delle città (obiettivi finalmente arrivati ad avere un rigo nell’agenda della crescita, ma non ancora svincolati dal patto di stabilità interno).

Un tema cruciale resta quello del disboscamento della burocrazia: per il programma di “Misurazione e riduzione degli oneri amministrativi” si tratta di 26 miliardi l’anno di zavorra sulle imprese, dei quali solo 8,1 sono stati effettivamente aggrediti con i provvedimenti degli ultimi anni. Lo spazio di intervento è dunque notevole e probabilmente, se fosse affrontato davvero con decisione attraverso una riduzione del carico fiscale insostenibile, libererebbe le risorse utili a sfuggire dal dilemma generazione perché il Governo, con la dote disponibile, probabilmente potrebbe far fronte sia alla giusta politica per chi esca dal lavoro sia alla indispensabile politica di incentivo per chi voglia farvi il suo ingresso.

Alberto Orioli – IlSole24Ore

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Presidente del Comitato Provinciale OPES Verona - Ente di Promozione Sportiva e Sociale riconosciuto dal CONI
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