Euro: come finirà?

Ci sarà una svolta nella lunga crisi dell’euro?

Deve esserci. Non siamo mai stati tanto vicini al rischio concreto di una disintegrazione dell’unione monetaria. Il meccanismo che oggi potrebbe farla implodere è una «corsa alle banche», cioè la perdita di fiducia da parte dei cittadini, con il conseguente ritiro dei loro depositi. Sta accadendo in Grecia; potrebbe accadere in Spagna. Se il panico si estendesse sarebbe la fine dell’euro. Per evitarlo sono necessarie due cose. Nell’immediato bisogna evitare il rischio di una corsa agli sportelli. Serve una garanzia europea sui depositi bancari che dia ai depositanti la certezza che i loro risparmi (almeno fino a un certo limite, diciamo 103 mila euro) sono al sicuro. Un’assicurazione di questo tipo già esiste, come in Italia dove la copertura è appunto di 103 mila euro. Ma si tratta, finora, di garanzie nazionali, il cui valore dipende dalla condizione dei conti pubblici di ciascun Paese.

Se il debito è elevato, la garanzia potrebbe non valere molto ed essere insufficiente ad evitare una corsa agli sportelli. È quindi necessario aggiungere, alle garanzie nazionali, un’assicurazione europea. «Europea» in questo caso significa tedesca, l’unico grande Paese dell’unione che ha mantenuto intatta la fiducia dei risparmiatori e dei mercati. Ma per convincere la Germania a correre questo rischio è necessario che la vigilanza sulle banche divenga essa pure europea. Il fiasco della Spagna, che troppo a lungo ha negato che molte sue banche fossero sostanzialmente fallite, rende il trasferimento della vigilanza alla Bce non più procrastinabile.

Ma l’opposizione alla vigilanza europea è forte perché riduce il controllo che i governi oggi esercitano (nel bene e nel male) sul sistema finanziario. Queste gelosie nazionali non sono più accettabili. Evitare una corsa alle banche allontana il rischio di una disgregazione immediata, ma non è certo sufficiente. L’euro non si salva se l’Europa non riprende a crescere. Per farlo, dobbiamo cominciare con l’ammettere che il nostro modello sociale non è più sostenibile. Non si può crescere con livelli di spesa pubblica (e quindi di tassazione) che superano la metà del reddito nazionale. Non possiamo più permetterci (come invece potevamo negli anni Sessanta, quando questo modello fu disegnato) di fornire sevizi gratuiti o quasi a tutti i cittadini, praticamente senza distinzione di reddito.

Non possiamo più permetterci di lavorare in pochi per sostenere i tanti che non partecipano alla forza lavoro (ad esempio c’è un divario di oltre 10 punti fra il tasso di partecipazione negli Usa e in Italia). Di fronte a questa realtà di portata epocale, l’idea che per far crescere l’Europa servano solamente più infrastrutture fisiche è sinceramente risibile. La scarsità di strade, treni e aeroporti non è il primo problema dell’Europa. Molti parlano di infrastrutture perché è un modo per non parlare dei veri problemi: il peso dello Stato sull’economia, le difficili riforme del mercato del lavoro e dei servizi. È venuto il momento che i leader europei si chiedano se davvero vogliono salvare l’euro. Se lo vogliono, è giunta l’ora che facciano qualcosa, ma, per favore, non ferrovie e autostrade.

Info su Alessandro Boggian

Presidente del Comitato Provinciale OPES Verona - Ente di Promozione Sportiva e Sociale riconosciuto dal CONI
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