Cosa sta succedendo?

La democrazia italiana sta vivendo una crisi profonda della sua rappresentanza politica. Lo hanno mostrato i risultati delle recenti elezioni amministrative. Lo hanno dimostrato i fatti accaduti il 2 giugno, con le solite note critiche di Antonio Di Pietro e l’assenza di Alemanno alla festa della Repubblica.

Una crisi partitica, insomma, che non può più essere messa sotto il tappeto. Cosa sta succedendo?

Stiamo misurando solo adesso le prime conseguenze del successo di Beppe Grillo. Spuntano ovunque gli imitatori di uno stile, il “grillismo” appunto, di cui il titolare e depositario del brevetto resta uno solo. E non c’è niente di peggio che assistere a questa rincorsa da parte di capi-partito o capi-corrente timorosi di essere scavalcati dalla marea e dimenticati in un angolo. O di sindaci che ritengono di aver individuato la scorciatoia per ritrovare la popolarità perduta.

Pochi hanno dubbi sul fatto che i partiti abbiano fallito il loro compito rappresentativo. Tuttavia, le opinioni divergono relativamente alle ragioni che hanno portato a quel fallimento. Molti ritengono che quel fallimento sia dovuto alla scarsa qualità del nostro ceto di partito, divenuto negli anni una vera e propria “casta”. Sicuramente così è avvenuto. Tuttavia, quel fallimento è dovuto anche al fatto che i due principali modelli di partito, utilizzati negli ultimi vent’anni, non hanno funzionato.

Il primo modello è stato quello del partito come organizzazione sociale, adottato dai partiti della sinistra (come il Pd) ma anche dai nuovi partiti ad insediamento territoriale della destra (come la Lega Nord). Nelle condizioni di una società caratterizzata da frammentazione e corporazioni degli interessi, questo modello ha finito per dare vita a organizzazioni di difesa di interessi specifici (sindacali, nel caso del Pd, e territoriali, nel caso della Lega Nord). Anche se entrambi hanno voluto rappresentare blocchi elettorali o aree regionali, in realtà i loro leader si sono trasformati negli amministratori delegati di un pacchetto specifico di interessi sociali. Quindi, il partito è divenuto lo strumento per la difesa di interessi corporativi interni, chiamati “cerchi magici”.

Il secondo modello di partito è stato quello dell’organizzazione personale inaugurata da Silvio Berlusconi. Questo modello ha rappresentato una vera e propria novità nella politica italiana, ma i suoi esiti sono stati tutt’altro che innovativi.

In entrambi i modelli di partito, le leadership oligarchiche oppure personali si sono legittimate per il controllo di cruciali risorse pubbliche, dal finanziamento elettorale alle nomine nelle varie agenzie statali. Non può stupire che partiti di questo tipo abbiano fornito scarse opportunità di rappresentanza a coloro che non appartengono alla società corporativa.

La crisi dei partiti ha (o avrà) effetti sistemici? La risposta è positiva, se si assume che la rappresentanza politica sia un compito esclusivo dei partiti. Se questi ultimi entrano in crisi, allora entra in crisi anche la democrazia. Naturalmente, anche la nostra Costituzione riconosce ai partiti un ruolo speciale nel processo rappresentativo, là dove afferma (articolo 49) che «tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Tuttavia, la risposta é negativa, se si assume invece che la rappresentanza politica costituisca un compito delle istituzioni prima che dei partiti. E infatti là dove istituzioni e partiti non coincidono, come nei nostri governi municipali, la crisi dei partiti non ha portato alla paralisi dei governi. Dunque, la crisi dei partiti può avere un effetto sistemico se (e solamente se) le istituzioni dipendono esclusivamente da essi. Come è il caso, appunto, del nostro parlamentarismo nazionale, il quale non può funzionare decentemente senza partiti decenti. Ecco perché la dipendenza del nostro parlamentarismo nazionale dalle vicende dei partiti lo ha trasformato in un sistema debole e rigido nello stesso tempo.

È questo che ci deve preoccupare, perché le istituzioni debbono poter funzionare nonostante la crisi di un modello o dell’altro di partito. Parliamoci chiaro: in una democrazia liberale la crisi dei partiti non dovrebbe mai condurre alla crisi delle istituzioni di governo. Se questo è il pericolo che corriamo in Italia, allora sarebbe bene di costruire nuove istituzioni capaci di favorire forme plurali di rappresentanza. I partiti debbono essere al servizio delle istituzioni e non viceversa. Ovvero debbono fare ciò che né il partito oligarchico né quello personale hanno fatto: selezionare un buon personale ed elaborare delle buone idee per il governo di società aperte e pluraliste.

È un problema di non poco conto in vista delle prossime elezioni politiche. Il processo emulativo nei confronti dei “grillini” non farà bene a un sistema politico boccheggiante. La prospettiva, poi, di uno scontro finale e trasversale fra populisti e anti-populisti è inquietante. Soprattutto se arriveremo al voto senza riforme e con i vecchi partiti, puntellati o meno dalle liste civiche, incapaci di sfuggire al discredito.

Info su Alessandro Boggian

Presidente del Comitato Provinciale OPES Verona - Ente di Promozione Sportiva e Sociale riconosciuto dal CONI
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