Come rilanciare la produttività e la competitività

Occorre alleggerire il peso fiscale su imprese e lavoro e farlo in modo selettivo. Ma non basta. Se non si fanno sforzi per cambiare il modello tecnologico che oggi regge le nostre imprese manifatturiere, rischiamo di precipitare in una sorta di deindustrializzazione. Va bene l’agenda digitale ma serve che le imprese  producano  prodotti di qualità e s’innovino profondamente nelle tecnologie, nell’applicazione dei nuovi ritrovati, nelle forme organizzative del lavoro produttivo e nella valorizzazione della risorsa umana (formazione e riqualificazione permanente). Competere nel mondo è la nostra sfida, ma ad oggi non lo possiamo fare. Serve anche chiarezza su come i lavoratori possano contribuire alla crescita della produttività. Evitare a questo proposito crociate o avere l’idea di intervenire a livello generale. Bisogna lasciare questa prospettiva ai livelli decentrati. Più produttività richiede una pubblica amministrazione più efficiente e meno impastoiata da pratiche burocratiche.

Il nostro capitalismo deve essere messo in grado di reggere la sfida competitiva globale attraverso la qualità dei prodotti, una diversa organizzazione del lavoro e la partecipazione. Il potere dei grandi gruppi finanziari – prima e dopo la crisi – ha prodotto una distorsione all’interno del sistema capitalistico, creando dipendenze, collusioni, speculazioni e la falsa idea di fare denaro con denaro che ha messo in crisi l’economia produttiva, ridotta la produzione di ricchezza e generato una distribuzione eccessivamente diseguale. I rischi d’impoverimento di larghi strati della popolazione sono cresciuti a dismisura. Si deve operare per un capitalismo diverso e più attento alla dimensione umana, dove la concorrenza tenda a ridurre le disuguaglianze, dove il merito sia premiato senza generare discriminazioni. Serve un capitalismo che abbia etica e valori morali e non solo economici. Riformare i caratteri del capitalismo significa puntare anche sulla nuova economia, sul non profit, sulle fondazioni di comunità e sulla partecipazione di tutti i soggetti alla vita dell’impresa economica.

Forse è arrivato il momento di iniziare a parlare con maggiore convinzione di economia civile e di economia appropriata. Nulla di rivoluzionario, ma un impegno teso a produrre una trasformazione progressiva verso una umanizzazione dei rapporti economici. I bisogni delle persone tendono sempre più a personalizzarsi e a variarsi e pertanto, a fianco dell’economia classica, dovrà  sorgere un’economia di supporto alle dinamiche della sussidiarietà.

E per le nostre start up giovanili? Dobbiamo creare delle corsie preferenziali cercando di contrastare il nuovo lavoro autonomo giovanile vissuto come un ripiego, in funzione di sopravvivenza e perciò spesso destinato a fallire per mancanza di risorse. Gli interventi dovrebbero premiare selettivamente una nuova imprenditorialità tecno-scientifica. Dobbiamo cercare di avvicinarci a una frontiera tecnologica da cui siamo tutt’ora distanti.

L’imprenditorialità rimane un sapere tacito ma, come detto all’inizio dell’articolo, richiede crescenti competenze tecno-cognitive, responsabilità e capacità di governance delle reti e dei contesti territoriali. Problemi per le start up giovanili sono l’accesso al credito e la pressione fiscale, ma anche il “saper vendere” o le capacità interpersonali che, possono rivelarsi più importanti di quelle tecniche. Proposte ragionevoli sono investimenti formativi e mirati a produttività e competitività (verso un’imprenditorialità hi-tech), ma anche riduzione del carico fiscale su reddito da lavoro e da impresa.

Info su Alessandro Boggian

Presidente del Comitato Provinciale OPES Verona - Ente di Promozione Sportiva e Sociale riconosciuto dal CONI
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