La Repubblica del Presidente

Ascoltando Giorgio Napolitano pronunciare uno dei discorsi più densi, potenti ed emozionanti mai ascoltati nell’aula di Montecitorio negli ultimi decenni, veniva spontaneo domandarsi: ma quei parlamentari, deputati e senatori in seduta comune, si rendono conto di cosa stanno applaudendo con tanto entusiasmo? Perché non basta dichiarare che l’intervento del capo dello Stato è «storico», come si sono affrettati a sottolineare non solo Berlusconi, ma tanti altri da varie parti politiche. Storico lo è, ma per ragioni che dovrebbero piacere poco a quelle forze politiche che per anni hanno ignorato gli appelli al rinnovamento, gli inviti a cambiare la legge elettorale, le sollecitazioni a non essere sordi di fronte al malessere del paese.

All’indomani delle elezioni si è visto che non c’era alcun vincitore, ma in compenso era esplosa (al 25 per cento) una una forza di contestazione come i Cinque Stelle. Nemmeno questo è bastato per imporre il principio di realtà, almeno non nel caso del Partito Democratico che ha proseguito nella sua strategia come se nulla fosse accaduto. Risultato, impotenza e ingovernabilità. Due mesi senza governo e fallimento dei tentativi di eleggere un nuovo presidente della Repubblica. Tale è la cornice in cui è maturata la richiesta disperata, si può ben dire, rivolta a Napolitano e da questi alla fine accettata. Tutto molto eccezionale, specchio di una congiuntura straordinaria. Ma è proprio per questo che il discorso del Presidente rieletto, nella sua drammatica tensione, segna uno spartiacque. Finiscono le ambiguità e le contraddizioni di una Seconda Repubblica mai nata. Finisce il gioco degli eterni veti incrociati, delle consuete ripicche, del piccolo cabotaggio quotidiano in un sistema malato capace solo di mentire a se stesso.

Quando Napolitano ha messo i partiti di fronte alle loro responsabilità, si è capito che eravamo entrati in una nuova stagione. L’uomo che ha accettato con riluttanza di restare al Quirinale è il fustigatore, in nome della salvezza delle istituzioni, della paralisi partitica. Ma è anche il potenziale salvatore delle forze politiche, se sapranno percorrere la strada della riscossa il cui tracciato è chiaro. Perché le parole del Presidente sferzano, sì, l’inconsistenza dei partiti, ma al tempo stesso indicano che la loro funzione democratica non può finire e certo non è sostituita dalla rete web. Così come le istituzioni non possono essere rese fragili da chi contrappone, magari solo per ignoranza, la piazza al Parlamento.

Ma cosa rende il discorso del Presidente, al di là delle sue verità di fondo, diverso da altri in passato rimasti lettera morta? Per quale ragione si deve essere più ottimisti oggi circa la capacità di reazione della comunità partitica? Per due ragioni. La prima è appunto che le circostanze sono cambiate in modo radicale rispetto al passato recente e meno recente. Napolitano ha raccolto l’appello dei partiti, ma non ha concesso loro alcun alibi. Anzi, li ha messi alla corda. Pur nel rispetto rigoroso dei limiti costituzionali, non ha permesso alcuna forma di auto-indulgenza. Secondo, ha calato sul tavolo una carta fondamentale che pochi in Parlamento hanno saputo intendere e interpretare in modo corretto. Quell’accenno cupo alle «conseguenze» che sarebbero inevitabili se lo stallo proseguisse e le riforme restassero lettera morta, non è un’allusione al voto anticipato. Quello è sempre implicito, visto che fa parte integrante dei poteri del Presidente. Le «conseguenze» si riferiscono invece alle dimissioni dello stesso Napolitano. Il quale può ben minacciarle oggi, dopo che è stato implorato di restare, consapevole che esse sono un’arma nucleare di fronte a partiti che si troverebbero di nuovo rituffati nella loro impotenza, con gli stessi problemi irrisolti e con analogo discredito internazionale.

Qui è la durezza estrema del discorso presidenziale, senza precedenti nella storia repubblicana come senza precedenti è la rielezione di un capo dello Stato insostituibile. E qui è anche la speranza di spezzare la gabbia dei veti e dei tabù. A cominciare dal più roccioso e inscalfibile: l'”orrore” di dover condividere un’azione di governo, in tempi eccezionali, con l’avversario, con il partito “nemico”. Quando invece oggi un’intesa di governo fra Pd e Pdl si profila come inevitabile ed è anzi segno di stabilità. La sua efficacia si misurerà sulla concretezza del programma, scarno e si spera efficace. Questa è la ricossa istituzionale che il Presidente ha delineato. Qualcosa di ben diverso dal «governissimo» vecchio stile, fonte di polemiche e inerte di fronte ai problemi.

Il prossimo sarà un «governo del Presidente» in tutto e per tutto, sia pure fondato su una precisa base politica. Che il Pd sia in grado di sopportare tale scenario senza lacerarsi è da vedere. Qualcuno ieri sera ha pensato di rilanciare con tesi da fantascienza: il Pd accetterebbe se la maggioranza fosse in grado di abbracciare sia Berlusconi sia Grillo. Evidentemente non a tutti è chiaro che il quadro è cambiato e che i vecchi giochi sono obsoleti. Nei prossimi giorni Napolitano dovrà e saprà spiegare meglio cosa s’intende per realismo politico.

Articolo tratto da IlSole24Ore

Info su Alessandro Boggian

Presidente del Comitato Provinciale OPES Verona - Ente di Promozione Sportiva e Sociale riconosciuto dal CONI
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